Con questo post inizia il percorso sui Libri che parlano di intercultura; sarà un viaggio lungo un anno – o forse più – ma te lo prometto: sarà interessante!
Parità in pillole di Irene Facheris, edito da Bur Rizzoli.
Perché leggerlo?
Sviluppato lungo una serie di capitoli che trattano differenti forme di discriminazione, rivolte principalmente al genere femminile, il libro della psicologa e formatrice Irene Facheris rappresenta un ottimo punto di partenza per adottare l’atteggiamento migliore nell’approccio alle tematiche interculturali.
L’autrice infatti comincia con due concetti fondamentali: la sospensione del giudizio e la possibilità di cambiamento. Nella sezione introduttiva del testo invita i lettori a fare lo sforzo di provare a capire quello che leggono senza affrettarsi a giudicarlo. Per quanto le informazioni possano apparire strane o le situazioni emotivamente distanti dal proprio modo di sentire, dovranno impegnarsi per tenere a bada l’istinto di catalogare ciò che leggono in giusto o sbagliato, vero o falso.
E non utilizza la parola sforzo a caso: per una questione di sopravvivenza il nostro cervello tende a classificare ciò in cui si imbatte in categorie, perché un’eccessiva pluralità non gli consentirebbe di prendere decisioni in tempi rapidi. Tali categorie, però, sono condizionate anche da fattori culturali (quali il luogo di nascita, i comportamenti accettati o meno all’interno della comunità in cui si vive ecc.) ed è necessaria una buona dose di fatica per modificare questo meccanismo. La ricompensa, tuttavia, è maggiore della spesa: accantonare il giudizio consente di avere una visione più ampia delle cose e di sviluppare una consapevolezza utile a gestire al meglio le situazioni.
Per parlare di cambiamento, poi, l’autrice porta un esempio personale: qualche anno prima di scrivere il libro ha diffuso tramite social commenti sgradevoli nei confronti dell’attrice protagonista di un famoso film, senza nemmeno rendersi conto che fossero discriminatori. Studiando, facendo una riflessione autocritica e cambiando alcuni suoi atteggiamenti, è arrivata a specializzarsi proprio nel contrasto a questa e altre forme di discriminazione.
Cosa c’entra tutto questo con l’intercultura?
Spesso, quando ci imbattiamo in qualcosa che non conosciamo o che si discosta troppo dalla nostra quotidianità tendiamo a giudicarlo e rifiutarlo, etichettandolo a volte come frutto di una mentalità retrograda, altre come derivato di usanze bizzarre. Facendo lo sforzo di sospendere il giudizio, potremmo invece scoprire che ciò che pensavamo non solo è errato ma rischia di condizionare negativamente la relazione che abbiamo con la persona/cosa/situazione che ha provocato il rifiuto.
Dopo lo sconcerto iniziale, ecco ciò che possiamo fare per andare oltre:
- interroghiamoci su che cosa ci abbia realmente spiazzato: se un oggetto, un comportamento o una frase, poi
- avvertiamo quali sensazioni e pensieri suscita in noi;
- domandiamoci il perché: associo quell’oggetto a una visione che non mi appartiene e/o che rifiuto? Quel comportamento rappresenta qualcosa che ho vissuto sulla mia pelle e ancora mi ferisce al sol pensiero? Oppure quelle parole enfatizzano un risultato a cui anche io, segretamente, aspiro?
- verifichiamo che le motivazioni che ci siamo dati corrispondano alla realtà, eventualmente coinvolgendo o osservando meglio la persona che tendiamo a respingere o, altrimenti, informandoci riguardo all’oggetto che ha provocato il fastidio.
Attenzione, non sto parlando di emozioni, che sono fuori dal nostro controllo, ma di come spieghiamo a noi stessi perché abbiamo provato quella cosa lì e non un’altra.
Per fare un esempio un po’ estremo:
Nel mondo asiatico è comune vedere il simbolo di una croce uncinata, circondata da quattro puntini, su edifici, oggetti e tessuti. Nella mente di un visitatore occidentale, soprattutto se europeo, il richiamo al nazismo e a tutte le terribili emozioni collegate sarebbe immediato. Secondo la sua esperienza, il turista sarebbe più che legittimato a pensare di scappare a gambe levate da un Paese in cui viene chiaramente accettata la simbologia di un periodo storico così terribile, tacciando tutti di essere dei delinquenti. Eppure, l’immagine della svastica si scontrerebbe in maniera netta con la gentilezza del personale con cui ha avuto a che fare, con il fatto che il tempio su cui si trova dev’essere lì da centinaia di anni… Allora, lo stesso turista potrebbe pensare di domandare alla guida che lo accompagna di che cosa si tratta e scoprirebbe che quel segno, nell’ideologia buddista e induista, rappresenta il sole e la vita. Esattamente il contrario di ciò che pensava!
Volente o nolente, per non buttare via tutti i soldi spesi nel tour, il viaggiatore dell’esempio ha già affrontato l’ultimo passo da compiere per allargare il proprio sguardo:
5. accettiamo di cambiare prospettiva (e atteggiamento) se ci rendiamo conto di qualcosa che non va.
Parole chiave: giudizio, emozioni, cambiamento
Diventa chi sei di Emilie Wapnick,
tradotto in italiano da Marco Bisanti e pubblicato da MGMT Edizioni
Perché leggerlo?
Se ancora non conosci questo libro, probabilmente rientri nella cerchia di persone che hanno avuto chiaro fin da piccole il percorso professionale da intraprendere. Se così non fosse, preparati, perché potresti ritrovarti tra coloro che hanno scoperto di essere multipotenziali.
Secondo l’autrice, “un multipotenziale è chi ha più interessi e capacità creative” e deve smettere di percepire la mancanza di linearità nel suo vissuto scolastico e/o lavorativo come un fattore penalizzante; può iniziare invece a valorizzare tutte le competenze che una simile tortuosità ha generato.
Nel suo caso, in particolare, l’avere studiato legge le consente di essere più persuasiva ed incisiva nella scrittura; suonare in una band per anni le ha dato la sicurezza necessaria per stare su un palco mentre grazie alla conoscenza del mondo del web ha potuto creare una community online piuttosto nutrita.
Sebbene la Wapnick ne faccia un discorso quasi esclusivamente professionale, ritiene che la pressione della scelta che la società esercita su ognuno di noi abbia ricadute sull’intera identità della persona. Scrive infatti:
Vogliamo tutto e rifiutiamo le etichette, cercando di evitare le scelte sbagliate. Mentre il mondo intorno a noi ci sprona a “scegliere una specializzazione”, a “puntare sulle nostre forze” e a “trovare una nicchia tutta nostra”, noi poveri mortali ci arrovelliamo per capire chi siamo e che cosa potrà dare significato alla nostra vita. Siamo vittime di pressioni esterne e interne, che s’intrecciano con l’inquietudine esistenziale e la confusione identitaria. E il caos non si limita all’adolescenza. Per molti di noi, dura per tutta la vita.
Cosa c’entra tutto questo con l’intercultura?
Proviamo per un momento a spostare il focus del discorso dal lavoro alla cultura. Se per alcuni lasciarsi definire da un unico progetto professionale può essere fonte di ansia e insoddisfazione, nonché di giudizi negativi, lo stesso può valere per coloro che sentono di non appartenere a un’unica cultura.
È il caso, ad esempio, delle seconde o nuove generazioni, vissute in Italia ma con un legame più o meno forte con il Paese e le tradizioni di provenienza dei propri genitori e che spesso si sentono chiedere se “sono più italiane o marocchine/albanesi/cinesi?”.
O degli italiani che ormai vivono all’estero e hanno imparato ad apprezzare le peculiarità delle loro nuove residenze, tanto da sentirsi in colpa se fanno paragoni affrettati; o ancora, degli intellettuali che studiano, si informano, vivono in maniera così viscerale il contatto con un’altra realtà che non riescono a scegliere quale vada meglio per loro (il nome Jhumpa Lahiri ti dice qualcosa?).
L’identità di ognuno di noi è composita, si costruisce all’interno degli scambi sociali e muta nel tempo. Ed è proprio questo il bello!
Se grazie alla Wapnick e ad altri come lei, è stato possibile sdoganare la pluralità e valorizzare i benefici che comporta sul piano lavorativo, perché è così complicato farlo anche sul piano identitario?
Parole chiave: identità, multipotenzialità
La dieta mediterranea di Ancel e Margaret Keys,
tradotto in italiano da John Irving e Paola Fortunato, pubblicato da Slow Food Editore
Perché leggerlo?
Unione di un certo stile di vita e diverse pratiche culinarie, la cosiddetta Dieta Mediterranea è ormai tanto condivisa e osannata da essere stata inserita dall’Unesco nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.
Ciò che forse però molti ignorano è che la sua sistematizzazione è opera del fisiologo americano Ancel Keys e della moglie Margaret che, a partire dagli anni ’60, hanno vissuto nel Cilento e compiuto una serie di studi proprio sull’alimentazione della zona.
Notando la buona salute degli abitanti locali, e più in generale degli abitanti dei Paesi affacciati sul Mediterraneo, i coniugi hanno ipotizzato la correlazione tra alimentazione e incidenza di disturbi cardiovascolari. Confrontando il tasso di mortalità tra statunitensi e “mediterranei”, i due avevano riscontrato una maggiore probabilità di sviluppare malattie tra coloro che assumevano quotidianamente grassi saturi, principalmente attraverso il consumo di carne rossa.
L’impiego di grassi vegetali, come l’olio di oliva, l’utilizzo di spezie ed erbe per condire e l’abbondante uso di frutta e verdura fresche parevano invece contribuire a mantenere uno stato di salute ottimale.
Grazie al cardiologo Paul White, i Keys approfondirono e validarono le loro ipotesi tramite uno studio in sette Paesi e pubblicarono il testo di cui sopra negli Stati Uniti, corredandolo di indicazioni e ricette che, oltre a stuzzicare il palato, potessero anche spingere i connazionali a nutrirsi meglio.
Cosa c’entra tutto questo con l’intercultura?
Il concetto di Dieta Mediterranea rappresenta, a mio parere, un buon esempio di sincretismo culturale. Secondo la Treccani, con questa espressione si indica un “incontro tra culture diverse che genera mescolanze, interazioni e fusioni fra elementi culturali eterogenei”.
Accomuna tradizioni simili tra loro (italiana, francese, spagnola, greca), trattandole come fossero una, e ne esclude delle altre (nordafricana, turca, libanese, israeliana) seppur limitrofe; si basa su un elemento, il cibo, che è presente in ogni cultura ma il cui portato simbolico viene vissuto da ogni popolazione in maniera diversa; esalta i benefici che derivano dall’incontro con realtà differenti; non da ultimo è stato coniato da scienziati statunitensi, con tutti i limiti e i pregi che questo comporta (metodologia, risorse, credenze pregresse ecc.)
Infine, l’origine un po’ inattesa della Dieta Mediterranea spinge a riflettere su quanto, a volte, consideriamo autoctono o esclusivo di una determinata cultura un elemento che in realtà non lo è.
Parole chiave: alimentazione, sincretismo culturale, locale
Per prima cosa GRAZIE ! Apprezzo il tempo che hai dedicato a ciò che ho scritto. Per seconda, forse l’argomento ti interessa davvero! E allora ti invito a scrivermi all’indirizzo info@tramedi.it o nei commenti qui sotto se il post ti è piaciuto, se avevi già letto i libri e ti hanno ispirato considerazioni diverse oppure se ne hai altri da consigliare.